Parola d’ordine: impatto! La social innovation verso FP9

Ne è passato di tempo da quando, nel 2010, l’innovazione sociale ha fatto irruzione sulla scena europea con il Libro Bianco di Murray, Caulier – Grice e Mulgan per poi essere al centro dell’iniziativa “Social Innovation Europe” che, sotto la presidenza Barroso, ne ha istituzionalizzato l’approccio: risolvere problemi comunitari attraverso la costruzione e il rafforzamento di relazioni e reti sociali.

Il Programma Horizon 2020 ne ha poi recepito il modello con una particolare declinazione digital, inevitabile vista l’esplosione di piattaforme online e dinamiche social. Ma cosa ne sarà della social innovation ora che a Bruxelles si lavora verso un nuovo Programma Quadro, in partenza da gennaio 2021 sotto l’acronimo FP9- Horizon Europa, e all’indomani della proclamazione del Pilastro dei diritti sociali? Può essere la social innovation considerata un principio “attivo” ormai presente nel policy making europeo o – in questa rincorsa a neologismi e neo-modelli – è già superata dal prossimo tormentone?

Ne abbiamo parlato con Filippo Addarii, autore, con Fiorenza Lipparini, della pubblicazione “Vision and Trends of Social Innovation for Europe” (ottobre 2017), commissionata dalla DG Ricerca & Innovazione. E abbiamo scoperto che molto bolle in pentola, e che uno scale-up importante potrebbe trovare spazio in FP9.

“Allo scadere della seconda Commissione Barroso – spiega Filippo Addarii –  l’innovazione sociale, in termini di politiche, è rimasta orfana, fino a quando il Commissario Moedas se ne è appropriato, rilanciandola come politica di ricerca e sperimentazione. La nostra pubblicazione è stata commissionata proprio con l’intento di identificare strumenti innovativi e chiavi di lettura in vista del prossimo Programma Quadro, FP9”.

Qual è dunque l’elemento di maggiore discontinuità rispetto alle prime politiche europee in termini di social innovation?

“Al di là degli immancabili bilanci e dei trend emergenti, il dato di maggiore discontinuità risiede in un vero e proprio cambiamento di visione. Per garantire non solo crescita economica ma qualità della vita ai cittadini e dunque legittimità e sostenibilità all’intero progetto europeo, è necessario che la politica di innovazione sociale sia inquadrata come dimensione sociale in ogni attività economica. Questo significa uscire dal confine delle politiche sociali, intese nel senso più classico di welfare, e spostarsi nell’ambito della politica industriale”.

Insomma uno spostamento non da poco.

“Uno spostamento dagli effetti sostanziali”, conferma Filippo.  E rilancia: “Quando sposti l’ambito di innovazione sociale da una politica sociale a una industriale diventa di competenza della Commissione e si tratta di una competenza di primaria importanza”.

“Questo passaggio – specifica –  è stato rafforzato negli anni successivi, perché lo Juncker Plan, il più importante programma di investimento pubblico-privato di questa Commissione, ha incluso nelle linee guida e nei criteri di investimento la dimensione dell’impatto sociale”.

Nell’analisi proposta, a rafforzare l’urgenza di un tale up-grade, l’esplosione di trend socio-economici già in atto da tempo che rischiano ora di diventare macroscopici e drammatici negli effetti, dal momento che il modello di crescita nazionale e diffusa – e il welfare che tale crescita permetteva di sostentare – è collassato. Alla crisi finanziaria-economica, si aggiungono infatti fattori quali l’invecchiamento progressivo della società; la trasformazione dell’industria e del mercato del lavoro, l’immigrazione; nuove forme di populismo.

Inevitabile che lo scenario dell’innovazione sociale diventi più complesso e articolato.

Da qui, la necessità di lavorare nell’ottica di una società responsabile, attraverso un’innovazione che sia al tempo stesso human – centered, system focused, politically engaged.

In sintesi, ci spiega Filippo “L’innovazione sociale non può più essere considerata il nice- to-have, la buona pratica di cittadini che si mobilitano per dare un contributo utile alla società. L’innovazione sociale diventa strutturale, fondamentale per la tenuta della società ma anche per lo sviluppo sociale ed economico dell’Europa”.

Di conseguenza, una serie di raccomandazioni per i policy maker europei sono state identificate.

Una su tutte è l’istituzione di un Fondo da un miliardo di euro per l’acquisto di impatto sociale, quello che nella pubblicazione viene chiamato il One Bilion Outcome Payment Fund, per sostenere le sfide che l’Europa deve affrontare oggi.

Ma cosa si intende per “acquisto di impatto sociale”?

Questa è la vera rivoluzione che dovrà interessare il prossimo Programma Quadro. Noi siamo abituati a una pubblica amministrazione che paga degli output nell’erogazione dei servizi, cioè paga il soggetto X per delle azioni. A nostro avviso il centro non dovrebbe essere il servizio bensì il risultato. Le istituzioni, per citare un ambito esemplificativo, non hanno il mandato di costruire ospedali bensì di garantire la cura e la salute dei cittadini.  Questa è una trasformazione paradigmatica e drammatica, in termini di misurazione dell’efficacia del pubblico, di lavoro e di infrastrutture.

Dunque la visione dietro a uno strumento come l’Outcome Payment è aiutare la pubblica amministrazione a fare un passaggio paradigmatico: dallo “spendere per l’erogazione di un servizio” all’ “acquistare i risultati generati dal servizio”, con un’attenzione specifica ai risultati desiderati dal cittadino.

Vorrei precisare che si tratta di una raccomandazione ancora molto astratta, perché c’è un’importante questione di governance da sciogliere, tra chi offre la prestazione e chi acquista il risultato ovvero di regole per un nuovo mercato che chiamiamo “mercato dell’impatto sociale”.  Ma una cosa è certa: l’orizzonte temporale per prepararsi al lancio di uno strumento di questo tipo è la nuova programmazione post 2020. L’ultimo triennio di Horizon 2020 diventa fondamentale.

In quest’ottica bisognerebbe avviare dei progetti di sperimentazione per verificare la fattibilità di alcune idee e progettualità in campo, per poi usare la futura programmazione per lo scale-up. Se pensiamo ad esempio alla misurazione di impatto, dovremmo lavorare da ora per identificare gli standard nell’equilibrio tra risultato finanziario e impatto sociale nei diversi ambiti, in modo che quando metteremo in campo questi bazooka finanziari ci saranno già delle indicazioni chiare.

Alla luce di quest’analisi, quali elementi di discontinuità dovremmo aspettarci nei bandi H2020 di quest’ultimo triennio?

Ci sono alcuni elementi fondamentali.  Innanzitutto nei progetti H2020 dobbiamo introdurre il rischio e la valutazione del rischio. Non c’è innovazione senza rischio.  Con l’attuale format, che prevede una pianificazione passo per passo, facciamo finta di ignorarlo.

In secondo luogo, la priorità dovrebbe andare sui risultati e non sui processi.

La grande domanda da porsi è: come può stare in piedi un programma che ambisce a incentivare e premiare i risultati se, per misurare i risultati, si basa sulle spese sostenute?

Siamo davanti a un conflitto strutturale tra outcome e input. E questo spiega perché, ragionando in termini di FP9, oltre ai contenuti si deve immancabilmente ragionare anche sul Regolamento Finanziario Europeo e sulla governance, soprattutto per i fondi strutturali. Sono però convinto che non si può disegnare un Programma che preveda nei partenariati solo istituzioni con track record.  Oggi gli innovatori sono individui, startup o new-co: soggetti che non hanno track record né capitale.  Se l’Unione Europea sceglie di finanziare i non-innovatori e costringe gli innovatori ad adeguarsi agli standard degli operatori tradizionali, non credo che si andrà molto lontano.

Via APRE Magazine Maggio 2018